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Città d_Arte

PEDROCCHI Servizi da caffè tra il ‘700 e ‘800

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Ci son luoghi che hanno una loro particolare aura, fatta di imper­cettibili vibrazioni e inafferrabili atmosfere. Il Pedrocchi è uno di questi: allo stupore che provoca il succedersi di spazi rievocati nella loro dimensione storica (etrusco, rinascimentale, gotico, arabo) si unisce la sensazione di sottile immersione in uno scrigno, una teca, una bomboniera del buon tempo passato. Bene ha fatto quindi l’Amministrazione a voler, per il Piano Nobile del Pedrocchi una scelta di esposizioni che, calandosi nell’aura dello stabilimento insieme lo valorizzassero e ne fossero a loro volta valorizzate. Gran Caffè, offelleria luogo di incontro della buona società ottocentesca, il Pedrocchi offre una serie di chiavi di lettura che, se colte con sensibilità e attenzione possono costituire motivo di vera sorpresa, curiosità e soddisfazione.

Si inizia quindi con le tazzine da caffè, seguirà l’argenteria, altre mostre poi verranno ad esplorare e a riscoprire quel mondo di oggetti che assieme e attorno al Pedrocchi ha da sempre ruotato intersecandone la vita e gli eventi: un approccio minimale, morbi­do, ma non per questo meno forte dal punto di vista della storia, dell’arte, della cultura.

Quando poi pensiamo che proprio questo mondo di oggetti è ogget­to a sua volta della “luxuria” collezionistica di una miriade di curiosi, amanti, conoscitori e appassionati, ebbene non possiamo non essere grati all’associazione “ARS PATAVINA” che ha voluto affiancare l’Amministrazione in quest’opera di riscoperta, di valo­rizzazione di un mondo che, pur del tutto trascorso ancora vive nell’aura dello stabilimento Pedrocchi.

Pier Luigi Fantelli Assessore alla Cultura e Beni Culturali

Articolo da QUADERNI DEL PEDROCCHI Il collezionismo SERVIZI DA CAFFE’ TRA IL SETTECENTO E L’OTTOCENTO

PORCELLANE, MAIOLICHE E TERRAGLIE ALL’INGLESE

Michelangelo Munarini

Fino agli inizi del XVI secolo ben pochi occidentali poterono vantarsi di possedere anche un solo esemplare di quelle ceramiche estremo-orientali tanto resi­stenti da non poter essere scalfitte da una lama d’ac­ciaio. La loro composizione rimase a lungo un mistero tanto che lo stesso nome di porcellane con cui sono conosciute indica, in portoghese, una conchiglia bian­ca usata in passato come mercé di scambio e le misce­le sperimentali utilizzate dai vasai europei portarono a realizzare dei prodotti ibridi meno resistenti – porcella­ne tenere – anche se spesso di notevoli qualità artistiche.

Il più insigne esempio di porcellana tenera è costituito dalla sessantina di pezzi sopravvissuti di quelli cotti per Francesco I de’ Medici negli ultimi lustri del Cinquecento. Secondo una ricetta originale fiorentina risulterebbero costituiti da una fritta artificia­le stabilizzata con terra bianca di Vicenza e, tutto som­mato, abbastanza simili a maioliche in cui il sottile rivestimento di smalto – ossia vetro piombifero opaciz­zato con un poco di ossido di stagno – sia stato tanto ingrossato da sostituire del tutto il solito corpo cerami­co poroso.

La vera porcellana risulta composta da una argilla pla­stica infusibile – il caolino considerato dai cinesi come lo “scheletro” – e da una parte fusibile – cioè la “carne” – cotte alla temperatura, assolutamente irraggiungibile dagli antichi ceramisti europei, di 1300-1400 C e com­pletata con una seconda cottura da una lucida “coper­ta” a base di feldspato e di fondenti.

Maneggiare un’antica porcellana cinese di buona qua­lità costituisce ancor oggi una piacevole esperienza e, nel tardo Seicento ed agli inizi del Settecento, l’amore per questi vasellami provenienti dall’Estremo Oriente assunse talvolta la gravita emblematica della Porzellankrankheit di Augusto il Forte Elettore di Sassonia e Re di Polonia.

Fin dal primo anno di regno le spese per la collezione furono così ingenti da com­promettere la stessa sicurezza militare ed economica dello stato e da spingere Ehrenfried Walther von 10 Tschirnhausen – (1651-1708) consigliere economico di corte – a portare a compimento certi suoi vecchi studi almeno per produrre localmente la bacinella in cui si raccoglie il sangue tolto alla Sassonia.

Dopo quasi tre lustri di tentativi – e con l’aggregazione allo Tschirnhausen del giovane alchimista di belle speranze Johann Friedrich Bòttger (1682-1719) – alla fiera di Lipsia del 1710 vennero esposti i primi pezzi di porcel­lana bianca di tipo cinese usciti dalla appena inaugura­ta manifattura di Meifien. In breve tempo il successo commerciale fu tale da rendere effettiva l’autonomia finanziaria, imposta nel 1720 dalla volontà reale, assi­curando pure qualche utile nonostante la metà della produzione fosse destinata dalla Corona.

Il favore del mercato non fu legato solo alla novità: l’arte della porcellana non aveva tradizioni e le conoscenze tecniche relative agli impasti, alla formatura, alla coperta ed ai colori vennero man mano scoperte da ceramisti necessariamente privi di una competenza specifica. Le stesse decorazioni, per quanto ben cono­sciute attraverso gli esemplari importati dalla Cina e dal Giappone, furono inizialmente affrontate ricorren­do agli orafi di Augsburg, utilizzando le lacche, gli smalti e provando, provando e riprovando.

Meifèen si impose presso le case regnanti e l’alta aristo­crazia ed Augusto il Forte stesso utilizzò abilmente le porcellane come lasciapassare per i propri ambasciato­ri-. L’arcanum, il segreto della porcellana, venne per questo attentamente custodito ma già nel 1718 sorgeva a Vienna la seconda manifattura europea. Gli arcanisti di MeiSen Christoph Konrad Hunger e Samuel Stòlzel fornirono le necessarie conoscenze alla prima officina – nel periodo Wien vor der Marke (1718-1744) – garan­tita solo da capitali privati.