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Enogastronomia,  Turismo in Italia

THE MARSALA CONNECTION

Fra Settecento e Ottocento la Sicilia occidentale era una sorta di colonia britannica, i cui membri gettarono le basi per l’industria del vino, diedero una mano a Garibaldi e lasciarono segni ancora tangibili

a cura di Elena Del  Savio da Rivista MERIDIANI

Patrick Brydone era un viaggiatore. Scozzese di nascita, uscito dall’università di St Andrews cominciò a girare il mondo e con altri gentiluomini nel 1770 giunse in Sicilia – all’epoca terra incognita per i suoi pari – e poi a Malta. Tornato in patria, nel 1773 pubblicò le proprie esperienze in forma epistolare con il titolo (appunto) A tour through Sicily and Malta. Fu un tale bestseller che ebbe parecchie edizioni in inglese e fu tradotto in diverse lingue.

Brydone fu il primo di una lunga serie di britannici che arrivarono in Sicilia. Molti vi si stabilirono, i   non sempre per scelta, spesso con la famiglia. Così, anche se non numerosi come i loro predecessori, finirono per essere tanto incisivi che potrebbero essere inclusi nell’elenco dei popoli che hanno colonizzato l’isola, al pari di greci, romani, arabi, normanni e via dicendo.

E non sono solo stati pacifici visitatori che hanno dato vita a una comunità coesa: con il loro alternarsi fra reazione e riforma, fra sostegno ai Borboni e poi quello a Garibaldi, hanno partecipato alle vicende siciliane e dell’Italia intera. Commercianti, soldati o figure politiche, hanno lasciato segni tangibili di un’eredità comunque fruttuosa.

Omaggi all’Eroe dei due mondi: sotto, un francobollo emesso nel 2010 commemora lo sbarco dell’ 11 maggio 1860; in alto, due etichette del marsala Woodhouse, una delle quali di qualità “Garibaldi” (il vino fu chiamato così perché era la variante piaciuta al generale, che pure si dice fosse astemio).

Fu nello stesso anno in cui usciva A tour through Sicily and Malta che il mercante John Woodhouse capitò a Marsala. Non per ragioni culturali, ma per ben più pratici motivi commerciali: era infatti diretto a Mazara del Vallo per approvvigionarsi di materie prime quali mandorle, olio e ceneri di Salsola soda (una pianta alofita succulenta che cresce nelle zone costiere ed è nota come barba di frate o del Negus), dalle quali veniva estratto il bicarbonato di sodio, o soda, importantissimo per la produzione di vetro e di sapone.

Ma mentre navigava al largo della costa occidentale della Sicilia lo attendeva una felice svolta del destino. Costretto da una tempesta a cercare riparo nel porto di Marsala, capitò in una taverna dove fece la gradevole scoperta di un vino forte e profumato chiamato perpetuum.

Quel nome derivava dalla tecnica di conservazione e invecchiamento utilizzata nei locali, che consisteva nel rabboccare annualmente con vino nuovo le botti di rovere da cui si era attinto. Un’operazione ripetuta negli anni, in perpetuum appunto. In fondo altro non era che una versione meno raffinata del già noto “metodo criaderas y solera” utilizzato in Spagna e in Portogallo per la produzione di jerez (lo sherry), porto e madeira, vini di grande fortuna in Inghilterra.

In alto, un ritratto dello scozzese Patrick Brydone (1736-1818) con una mappa della Sicilia, meta di un viaggio giovanile raccontato in “A tour through Sicily and Malta”, pubblicato nel 1773 (qui sopra).

Funziona così: le botti sono sistemate in file sovrapposte; ogni fila contiene lo stesso vino allo stesso punto di invecchiamento, in ordine crescente (il più giovane in alto, il più vecchio in basso); dalle botti alla base (solerà, da suelo, suolo) viene attinto il vino da commercializzare.

La quantità estratta per riempire le bottiglie viene sostituita da una identica prelevata dalla fila immediatamente superiore (prima madera), la quale è a sua volta compensata dal contenuto  delle botti subito sopra (seconda madera) e così   via fino all’ultima fila, la più alta, dove viene aggiunto il vino nuovo Woodhouse rimase folgorato dal perpetuum.

L’anno successivo spedì in Inghilterra una sessantina di botti, adottando una precauzione: per evitare che il vino patisse il mal di mare lo stabilizzò “fortificandolo”, aggiungendovi cioè una piccola dose di alcool. Dalla manipolazione di un prodotto preesistente ne nasceva quindi uno sostanzialmente nuovo: il marsala.

Documento Duca di Bronte

Al suo successo contribuirono anche alcune circostanze storiche. Negli anni delle guerre rivoluzionarie francesi e napoleoniche, Ferdinando IV di Borbone – spaventato dalla Repubblica d’Oltralpe, considerata una minaccia per qualsiasi re – finì col firmare un trattato anglo-napoletano (1793) che segnava l’ingresso delle due Sicilie nella coalizione antifrancese e, di fatto, nella sfera di influenza britannica.

A inizio Ottocento i bagli dei mercanti-imprenditori britannici divennero stabilimenti vinicoli. Il primo fu realizzato a partire dalla tonnara detta del Cannizzo, appena fuori Marsala (in un dipinto anonimo del XIX secolo). A “inventarlo” fu John Woodhouse, che poi ne fece costruire altri a Partinico, Castellammare del Golfo, Mazara del Vallo e Petrosino.

Contribuì al nuovo sodalizio John Acton dal 1779 segretario di Stato del Regno di Napoli e capo della flotta borbonica, che aveva in pratica costituito dal nulla (di padre inglese, nel 1791 aveva ereditato il titolo di baronetto di Aldenham). Fu a bordo del Vanguard di Sua Maestà, sotto il comando di Horatio Nelson, che nel dicembre del 1798 – dopo la disfatta partenopea contro l’effimera Repubblica romana, sorella di quella giacobina -il sovrano e la regina Maria Carolina fuggirono da Napoli e si rifugiarono a Palermo.

Poco più di un anno dopo John e William Woodhouse (figli di “Old John” e impegnati con lui nel business del marsala) ricevevano un ordine per la fornitura di 500 botti destinata alla flotta di stanza a Malta. Il contratto originale, conservato nell’archivio delle Cantine Florio, riporta la data del 19 marzo 1800 ed è firmato dall’ammiraglio in persona, che fra i suoi titoli riporta quello di duca di Bronte.

Lo aveva ottenuto, insieme con migliaia di ettari di terreno, con l’abbazia di Maniace e con la cittadina stessa di Bronte, da Ferdinando IV come ringraziamento per avergli salvato la vita e averlo riportato sul trono dopo la repressione nel sangue della fugace Repubblica napoletana. Nelson fece eseguire consistenti lavori agricoli e ristrutturare l’edificio religioso destinato a dimora padronale, ma poi prese altre strade: non abitò mai nella sua “ducea”, anche se negli anni seguenti amò firmarsi Nelson Bronte.

Per la cronaca, solo nel 1981 Bronte potè scrollarsi definitivamente di dosso questo legame feudale; con la vendita al Comune di Bronte del castello e della sua tenuta, gli ultimi beni rimasti alla famiglia, la bandiera britannica è stata infine ammainata (ma il titolo è ancora di Alexander Nelson-Hood, meglio noto come Alex Bridport, fondatore di una ricca società di servizi finanziari con sede a Ginevra, così come il piccolo cimitero inglese, dato solo in concessione al Comune di Maniace).

L’ammiraglio Horatio Nelson (1758-1805) in un ritratto di Lemuel Abbott conservato alla National Portrait Gallery di Londra. Fu il primo duca di Bronte o Brentè (come riportato nel documento in alto a sinistra). Negli ultimi anni di vita amò firmarsi “Nelson Bronte” (in alto, al centro). Sopra, un ritratto di John Acton (1736-1811). cui si deve l’organizzazione della flotta borbonica.

Il Blocco continentale, cioè il divieto di attracco in qualsiasi porto sotto il dominio francese imposto da Napoleone alle navi britanniche nel 1806, ebbe come effetto un’invasione di mercanti inglesi nella Sicilia “amica”. Con Malta, l’isola siciliana divenne il cuore dei loro commerci (oltre che della loro flotta) nel Mediterraneo. Mentre i Woodhouse continuavano a espandere la propria attività, rilevando una tonnara e trasformandola in un monumentale baglio per la produzione del vino (che divenne il modello per tutti quelli realizzati in seguito), arrivarono altri imprenditori, che apprezzarono il marsala e le potenzialità di un mercato con un unico concorrente.

etichette d’epoca del marsala prodotto da alcune delle dinastie inglesi del vino siciliano: oltre al Woodhouse, da cui tutto iniziò, ebbero grande successo gli Ingham- Whitaker, che fondarono un impero

Come Joseph Payne, Thomas Corlett, James Hopps. Ma soprattutto come Benjamin Ingham, che giunse in Sicilia | nel 1806, appena ventiduenne, in qualità di rappresentante delle industrie tessili che la famiglia aveva nei pressi di Leeds. Nel 1812 costruì il proprio baglio a poche centinaia di metri da quello di Woodhouse. Dedicando le proprie energie a stabilire regole e standard di produzione del vino (spedì il fratello Joshua in Spagna e Portogallo per apprendere le tecniche di “fortificazione”) e coinvolgendo nel business anche cinque nipoti (fra cui un paio di figli della sorella Mary, maritata Whitaker), riuscì a surclassare il rivale e a raggiungere anche il mercato americano. La sua azienda vinicola divenne la più grande della Sicilia.

Ingham è passato alla storia come uomo d’affari abile ma spietato, e bene lo sintetizza una frase che la leggenda gli attribuisce. Quando William, primogenito della sorella, morì in Sicilia a soli 22 anni, Benjamin avrebbe scritto a Mary: “Tuo figlio è morto. Per favore mandamene un altro”. Sarebbe stato prontamente esaudito con l’invio di Joseph, di appena 17 anni.

L’industriale – noto in Inghilterra come Benjamin Ingham di Palermo -è considerati da alcuni storici come il tycoon inglese più grande di sempre. Amò perdutamente Palermo (nelle sue prime lettere a casa descrisse la veduta della Conca d’Oro come “più bella del Giardino delle Esperidi”) e anche Alessandra Spadafora, duchessa di Santa Rosalia, che sposò (o fece finta di sposare, perché non esistono documenti ufficiali) dopo 15 anni di sconveniente convivenza e cui rimase fedele sino alla fine.

Ingham morì nel 1861 lasciando un patrimonio che si ritiene fosse di almeno 12 milioni di sterline e un’azienda, la Ingham-Whitaker, che contava per oltre il 50 per cento della produzione complessiva di marsala. La parte restante era nelle mani di Vincenzo Florio e delle cantine Woodhouse (nel 1929 i marchi furono riuniti dalla Cinzano nella S.A.V.I. Florio Ingham Whitaker Woodhouse & C.).

Negli anni risorgimentali la classe imprenditoriale inglese trapiantata in Italia si schierò contro il potere screditato dei Borboni. I tempi erano cambiati, da quando la Gran Bretagna aveva garantito il proprio appoggio alla monarchia. Una nave della flotta Ingham-Whitaker, il Palermo, partecipò ai moti del 1848. Nel 1860, in occasione dell’arrivo dei Mille, Woodhouse e Ingham-Whitaker fecero sventolare sui rispettivi bagli la Union Jack mentre Garibaldi sbarcava a Marsala, impedendo così di fatto alle forze borboniche di attaccarli.

Colpire, anche per errore, qualunque possedimento inglese avrebbe infatti provocato un’immediata risposta da parte della flotta di Sua Maestà. Per ringraziare, la bandiera del Lombardo, uno dei piroscafi con cui la spedizione dei Mille era giunta in Sicilia, fu donata agli Ingham-Whitaker, che la issarono sul tetto del baglio. Un anno dopo gli inglesi crearono il Garibaldi Biscuit: tuttora prodotto, testimonia da 155 anni l’indelebile simpatia britannica per l’Eroe dei due mondi, accolto trionfalmente a Londra nel 1864.

“Union Jack

Le testimonianze del passaggio degli inglesi in Sicilia si trovano soprattutto nel capoluogo siciliano.

Villa Malfitano, con opere d’arte e pezzi di antiquariato raccolti da Joseph Whitaker.

A PALERMO

  • Villa Malfitano. Fu costruita fra il 1886 e il 1889 da Joseph Isaac Spadafora Whitaker (1850-1936), conosciuto come Giuseppe o Pip. Pronipote di Benjamin Ingham (1784-1861), fondatore dell’impero Ingham-Whitaker, era appassionato di botanica, ornitologia e archeologia (si devono a lui i primi scavi scientifici a Mozia; . Le sue collezioni d’arte e antiquariato sono raccolte nella dimora, aperta al pubblico. L’edificio, in un grande parco, è considerato il capolavoro dell’architetto Ignazio Greco. È una delle due sedi della Fondazione Whitaker (via Dante 167, tel. 0916820522, www. fondazionewhitaker.it; orarì: 9-15, domenica solo su prenotazione; ingresso: 6 euro, 9 con visita del piano superiore).
  •  Prefettura – Il palazzo, in stile neogotico veneziano, fu fatto costruire da Joshua Whitaker (fratello del Joseph di Villa Malfitano) come sua residenza cittadina (via Cavour 6).
  • Villa Sofìa. Fu acquistata e ampliata nel 1850 da Joseph (padre di Pip e Joshua), che la intitolò alla moglie Sophia Sanderson, figlia del console inglese a Messina. Oggi fa pane dell’ospedale Vincenzo Cervello e la si può vedere entrando nell’area ospedaliera (piazza Salerno 1, www.ospedaliriunitipalermo.it/la_nostra_storia.html).
  • Holy Cross Church. È la chiesa anglicana voluta dal Joseph Whitaker di Villa Sofia (1802-84) e dal cugino Benjamin Ingham (1810-72). Aperta nel 1875, si trova quasi di fronte al Grand Hotel et des Palmes, sorto come residenza Ingham-Whitaker nel 1856 e divenuto un albergo nel 1874.

La villa era collegata alla chiesa attraverso un passaggio segreto (via Roma 467A, angolo via Mariano Stabile; www.chiesaanglicanapalermo.it).

Il Castello di Nelson, ricavato dall’abbazia di S. Maria a Maniace.
di un ‘azienda produttrice di olio chiusa al pubblico (www.racalia.com).

FUORI PALERMO

  • Si visita il Castello, realizzato da Nelson ristrutturando la duecentesca abbazia di S. Maria di Maniace (tel. 095690018, www. comune.bronte.ct.it/La_Citta/Castelb_Nelson.aspx; orarì: 9-13 e 14.30-19; ingresso: visita guidata chiesa, appartamenti e parco, 3 euro).
  • Del baglio fatto costruire dai Woodhouse nel 1813 rimane il portale, divenuto simbolo del Comune (è raffigurato nello stemma).
  • Al limite settentrionale di Marsala, la villa acquistata da Ingham nel 1840 – ancora in mano ai suoi discendenti -è al centro di un ‘azienda produttrice di olio chiusa al pubblico (www.racalia.com).