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Arte / architettura

Gio Ponti Architettura educazione classica

INTRODUZIONE

Moderno vuol dire moltissime cose. Gio Ponti è moderno perché è artista, intuisce quello che l’epoca pensa, quello che sta per nascere e lo diffonde. Può dire, come Picasso: «Io non cerco, trovo». È, infatti, l’intuito che trova.
Ponti è un poeta della visione. Lascia entrare, come in un cristallo, la luce dentro di sé e la restituisce.

poltrona Gabriela (o Poltrona di poco sedile) (1971), prototipo della ditta Walter Ponti, prodotta successivamente dalla ditta Pallucco di Treviso

È un poeta in cemento armato, cioè un architetto, ma un architetto non ortodosso. Nei suoi colleghi più amati, Le Corbusier, Niemeyer, Alvar Aalto, ammira quella ortodossia che egli non possiede. « Un nativo complesso di inferiorità mi ha sempre accompagnato per tutta la vita», confessa, con una sincerità sconcertante.

«Gio Ponti è a trecentonovanta gradi», dice l’artista designer Manda Vigo, trenta più degli altri. Quasi tutti gli architetti rappresentano se stessi, lui no; è un ladro di idee, come Picasso, entrambi rei confessi. Mentre tutti sono alla ricerca di una cifra personale, Gio Ponti è al servizio dell’architettura.

Jean Blanchaert GIO PONTI  da artedossier   GIUNTI

Come lui stesso racconta, quando ha assistito alla Scala alle prove di un grande direttore di orchestra che suggeriva ai suoi musicisti di suonare senza espressione, come se volesse eseguire lo spartito musicale senza ansia interpretativa, senza desiderio di originalità forzata, ne è rimasto conquistato.
Analogamente, egli si lascia guidare dalla melodia dell’architettura e dell’arte, cercando di intervenire il meno possibile.

Quella che Mario Botta ricorda come la sua «innata eleganza» lo preserva dalle stonature. Ponti è diverso dagli altri architetti. In lui l’architettura sgorga spontanea come la lava da un vulcano. Se fosse vetro non sarebbe quello fatto dall’uomo, bensì quell’ossidiana lavica, cioè quel vetro naturale che si autogenera.

L’architettura di Gio Ponti è innata, spontanea e inarrestabile. La sua giornata, dicevano i suoi amici, è di “sessanta ore”. Dalle 5 alle 6 di mattina scrìve agli amici, dalle 7 alle 20 è nello studio di via Dezza. Di notte veglia nella casa dormiente con le luci accese. Al mattino il letto è coperto di disegni di architettura e i suoi soci vengono a sapere che il progetto è stato cambiato.

Trascorrono così sessantanni di lavoro, «senza tregua, senza fatica, senza sforzo, anche con momenti di solitudine, come avviene agli artisti»1″. Il suo lavoro non ha confini. Non c’è soltanto l’architettura, ma porcellane, ceramiche, argenti, smalti, vetri, tessuti, legno: tutti i materiali dell’arte applicata passano dalle sue mani.

Ogni tanto in una generazione emergono singoli individui che, da soli, pongono in atto un profondo e ingenuo sforzo di cambiare la storia. La loro azione non si traduce in un manifesto politico, ma ha un’influenza decisiva sulla cultura del loro paese. Gio Ponti è uno di questi. Dicono alcuni che nel genio c’è un bambino molto piccolo e un uomo molto grande.

Questa osservazione in qualche modo lo riguarda: bambino, con gli occhi e la bocca spalancata di fronte alla vita per guardarla e divorarla, eterno scolaro, stupito e riconoscente, indagatore delle scoperte altrui; uomo, che fa nascere una sua forma dall’esperienza della forma, che organizza, incoraggia, elabora, propone e insegna. «Io detesto le discriminazioni tecniche, i problemi a sé, per soli competenti. Io voglio un ‘altra cosa, voglio la civiltà, che è conoscenza aperta e diffusa, da parte di tutti, di tutti i nostri problemi»

disegno per la serie La conversazione classica (1924); manifattura Rjchard-Ginori di Doccia, Sesto Fiorentino (Firenze).
piatto Fabrizia della serie Le mie donne (1924); manifattura Richard-Ginori di Doccia, Sesto Fiorentino (Firenze).
Piatto della serie Le sirene (1930); manifattura Richard-Ginori di Doccia, Sesto Fiorentino (Firenze).

Nel 1922 Gio Ponti incomincia anche a frequentare la fabbrica di ceramica nel quartiere San Cristoforo a Milano.
Il proprietario dello stabilimento, Augusto Richard, intuisce nel giovane architetto lo spirito avventuroso e la capacità organizzativa e, nel giro di un anno, lo nomina direttore artistico della Richard-Ginori.

Quello che Paolo Venini fece a Murano per il vetro negli anni Venti, Gio Ponti lo fa per tutta la vita nella ceramica e in tutti gli altri ambiti artigianali in cui si muove, mostrando ai migliori artigiani d’Italia, che continuano a ripetere gli stessi stilemi da secoli, le forme nuove della modernità.

Egli partecipa alla Biennale di Monza del 1923 e sorprende tutti. Le sue opere, accanto a quelle di un Liberty colto (Alessandro Mazzucotelli, Guido Marussig), ad altre già déco e a una produzione industriale spesso di pessimo gusto, testimoniano la cultura di un erede ideale dello stile neoclassico lombardo dei primi dell’Ottocento, che abbia anche visitato le civiltà italiche, greche, etrusche e l’Italia del tardo Rinascimento.

Le sue fonti più dirette sono i musei e le incisioni dei reperti portati alla luce dagli scavi settecenteschi di Ercolano. Ne nascono le serie Herculanea, la Passeggiata archeologica, la Conversazione classica. Da cittadino di un paese dove le rovine sono disseminate ovunque, egli percepisce l’antichità come un’esperienza quasi fisica.
I suoi modelli rinascimentali sono il Parmigianino e il Pontormo, che ispirano la serie ceramica Le mie donne, creature divine, adagiate sui fiori e sulle nuvole, di un manierismo lezioso e languido.

Servizio da tavola in porcellana, modello Gentilesco (1925 circa;,-manifattura San Cristoforo di Milano.

Ponti partecipa anche a quella rivoluzione del gusto, nata dal sogno di una bellezza consumabile da tutti e in atto in Europa dagli anni Venti, che sarà poi chiamata, con un termine assegnato dalla critica in anni successivi, Art Béco. Se egli si inserisce in pieno in questo movimento, risultato della fusione di molti stili, è perché alla sua origine hanno contribuito i laboratori della Wiener Werkstàtte (artigianato viennese) in cui si è per la prima volta posto radicalmente il problema dell’arte in funzione della produzione industriale.

Egli infatti crede che il binomio bellezza-industria possa influenzare la vita, facendo nascere uno stile. Crede che, alla fine, lo stile possa diventare un’etica, l’etica di un’intera nazione.
L’Art Déco è per la prima volta largamente rappresentata nel 1925 a Parigi, al Salon des Arts Bécoratifs et Industriels Modernes, dove la Richard-Ginori vince due premi, uno dei quali è assegnato a Ponti.

Da questo momento egli inizia a essere «perseguitato dalla fortuna», secondo un’espressione da lui stesso usata (ha la generosità di chiamare fortuna qualunque cosa gli capiti), ma come tante persone di grandissimo valore pagherà il suo successo con la mancanza di tempo. Incontrerà, quasi soltanto “via finestrino” – dell’automobile, del treno o dell’aereo – «la grande natura, l’entusiasmante cielo»8,

La mano della strega e La coppa delle chiavi (1930); manifattura Richard-Ginori di Doccia, Sesto Fiorentino (Firenze).

I grandi artisti hanno una capacità supersonica di convertire le proprie idee in opere, quasi fossero angosciati dal tempo che passa, dalla morte che li insegue come un’onda. Le loro idee nascono spesso in notti insonni. Oggi chi sa valersi di internet può realizzare infinite cose. Ponti ne realizza, se possibile, ancora di più nella sua era preinformatica.

Nelle ceramiche Richard-Ginori che egli presenta al Salon des Arts Décoratifs si può notare un profondo rinnovamento delle forme e dei decori tradizionali della manifattura. Irrompe il suo stile d’artista, leggero e fiabesco. Di queste opere scriverà anni più tardi Germano Celant, rimodellandone, con fantasiosa precisione, un’immagine interiore: «Basta considerare le ceramiche degli anni 20 per la Richard-Ginori per comprendere come il registro della impalpabilità e del chiarore siano stati applicati da Ponti per creare uno spessore ed una intensità […] l’invasione dell’aereo e del trasparente si concretizza anche sulle superfici dorate, disseminate di colori tenui e increspati […], su di esse galleggiano poi figure, in cui i gesti di carne sono vivi e seducenti, condensando sensualità e seduzione […].

Lettera di Giò Ponti a Luigi Tazzinj (1924), decoratore della manifattura Richard-Ginori di Doccia, Sesto Fiorentino (Firenze).

Luigi Tazzini, pittore lombardo che aveva diretto la manifattura Richard-Ginori di Doccia (Sesto Fiorentino, Firenze) nel primo ventennio del Novecento, quando Gio Ponti, nel 1923, viene nominato direttore artistico della stessa azienda, diventa il suo braccio destro. In dieci anni di collaborazione sempre in grande sintonia, Tazzini riceverà da Ponti più di duecento lettere, missive di lavoro piene di dettagli e disegni. Quattrocentoventisei pagine che sono vere e proprie opere d’arte.

A volte sospesi nel vuoto, le donne e gli efebi di Ponti sono il condensato di una libido vetrificata, quasi sognata»’9′.
Ponti si muoverà sempre a suo agio nella produzione di serie, mantenendo comunque un occhio di riguardo ad alcuni grandi e speciali pezzi unici.

Passione per la purezza classica, industrializzazione, artigianato come arte, ritrovamento di entrambi nella stessa grande miniera dell’espressione umana sono i temi e i processi che attraversano questo momento.
L’Art Déco li contagia ed è contagiata da tutto. Gio Ponti non penserebbe mai di far parte di un qualsiasi movimento di pensiero.

Pensa semplicemente di essere un episodio isolato di quella contemporaneità che, per lui, è la storia della cultura. Egli è «l’inventore isolato per il quale la storia dell’arte non è un progresso, ma una successione di diversità»^. Il lavoro che egli dedica alla produzione è a trecentosessanta gradi: non soltanto crea le forme e i decori, ma studia e disegna gli annunci pubblicitari, progetta gli stand per le esposizioni, valuta la commerciabilità dei prodotti.

Tiene quotidianamente i contatti con la sede della Richard-Ginori di Sesto Fiorentino (Firenze) tramite missive, spesso disegnate, perentorie e gentili, avvantaggiato dal fatto che allora, negli anni Venti, una lettera impiegava soltanto un giorno per giungere da Firenze a Milano.

Tutte le sue idee e intuizioni si proiettano ora su uno scenario di lavoro d’equipe, di relazioni che si intrecciano con altre relazioni. Il suo talento e la sua vocazione d’artista si dividono tra mille interlocutori, artigiani e artisti; si rifrangono in un caleidoscopio di altre vocazioni, attitudini e stili che egli scopre e incoraggia.

Intorno alla Richard-Ginori di San Cristoforo a Milano, dove egli ha spostato la direzione artistica, creando un piccolo terremoto nella sede di Sesto Fiorentino, si affollano, attratti e invitati da lui, gli artisti. A Melotti, Fabbri, Sassu, Leoncillo, Fancello, Strada, Fontana affiderà la realizzazione di molte ceramiche, a Sironi il grande murale della V Triennale 1933, a Campigli la decorazione dell’atrio del Liviano dell’Università di Padova.

II Liviano (1937), edificio per la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, veduta delle scale dall’ingresso
II Liviano (1937), edificio per la Facoltà di Lettere de/rUn/versità di Padova, atrio con il Tito Livio di Arturo Martini e gli affreschi di Massimo Campigli in una foto del 1937.